Da dove nasce il concetto di immersività? A che domande risponde e che questioni solleva?In questo articolo definiamo a grandi linee il percorso di scienza e arte verso l’immersività e raccogliamo gli sforzi di alcuni studiosi volti a cogliere il significato sfuggente di tale concetto.
Lo sguardo rappresentato
La rappresentazione della realtà circostante ha origini antichissime, e fin dal principio si trova a doversi confrontare con i limiti dei media a sua disposizione. Come rappresentare una realtà in tre dimensioni su di una superficie a due dimensioni? La storia della rappresentazione è lunga e ricca di tentativi e metodi differenti volti alla ricerca di una raffigurazione quanto più possibile vicina alla percezione umana della realtà circostante.
Il culmine di queste ricerche è costituito dalla prospettiva. Teorizzata da Euclide e applicata in pittura per la prima volta da Leon Battista Alberti, è il metodo geometrico-matematico che più si avvicina alla visione umana, in grado di creare illusioni spaziali su di una superficie bidimensionale.
A seguito di questa grande conquista rinascimentale la ricerca pittorica verso l’isomorfismo della visione prosegue.
Alla ricerca dell’atmosfera
Particolarmente rilevante, ai fini del tema di questo articolo, è la ricerca condotta dagli impressionisti. Consapevoli della lezione rinascimentale individuano ed analizzano ciò che ancora manca alla prospettiva Albertiana: l’atmosfera
Claude Monet, nella sua ricerca sulle ninfee, porta all’estremo la ricerca dell’espressività atmosferica. Sente la necessità di allargare i limiti del quadro utilizzando tele dalle dimensioni monumentali, il cui effetto sullo spettatore è quello di sentirsi avvolto dalle sensazioni atmosferiche dell’opera.Al Musée de l’Orangerie di Parigi, in due grandi sale ovali, le enormi tele sono esposte in continuità formando un unico grande dipinto circolare.
Verso l’immersività
È con l’invenzione della fotografia che la tendenza a ricercare l’immersività si esprime al suo massimo. Fin dal principio si sono sperimentati formati sempre più grandi: sia per aumentare la qualità dell’immagine, e quindi il realismo, sia per catturare una porzione di realtà sempre più ampia. Nel 1901 i fratelli Lumiere inventano il Periphote, una macchina fotografica in grado di catturare un’immagine a 360°, ed in seguito il Photorama: un sistema di proiettori in grado di proiettare tali pellicole sulle pareti di una sala circolare.
Con il cinema si introduce una nuova componente: il tempo. Le possibilità narrative si moltiplicano e la ricerca dell’immersività assume maggiore forza.
Tra i primi esempi di quello che Gene Youngblood definisce “cinema espanso” troviamo Napoleon (1927) di Abel Gance. Alcune scene del film sono concepite per essere proiettate su tre schermi adiacenti grazie ad un sistema di tre proiettori sincronizzati. Da qui le sperimentazioni si moltiplicano: a partire da formati cinematografici commerciali come il cinemascope, il cinerama o il più moderno IMAX, fino alle sperimentazioni artistiche di Stand Van Der Beek con il suo Movie Drome (1965), una cupola emisferica sulla quale venivano proiettati diversi film e diapositive creando un effetto immersivo psichedelico.
L’avvento del digitale, lo sviluppo di tecniche e tecnologie come il videomapping o i visori VR, hanno aperto le porte a soluzioni in grado di ottenere effetti immersivi sempre più potenti.
Come definire l’immersività?
La realtà rappresentata ha sempre sofferto dei limiti mediali. Abbiamo visto come la volontà di molti artisti sia stata quella di superare tali limiti tentando di confondere i confini tra realtà e rappresentazione. Quanto descritto fino ad ora mostra il lungo percorso che ha portato alla nascita delle esperienze immersive e della definizione di immersività.
Per definire il concetto di immersività bisogna operare una prima distinzione tra immersività mentale e fisica. L’immersività mentale è quella sensazione in cui l’utente si sente profondamente coinvolto all’interno della finzione proposta fino a distaccarsi dalla percezione del luogo in cui si trova fisicamente. Ciò avviene ad esempio attraverso la lettura di un libro particolarmente appassionante. L’immersione fisica, invece, sfrutta media visivi e spaziali per coinvolgere i sensi dell’utente.
Definire l’immersività non è cosa semplice. La prima definizione può essere ricondotta al libro Hamlet on the Holodeck, un volume visionario scritto nel 1997 da Janet Murray, ricercatrice del MIT (Massachusetts Institute of Technology), che indaga le possibilità della narrazione all’interno di ciò che all’epoca veniva chiamato cyberspazio.
Con questa definizione Murray fissa i pilastri fondamentali dell’immersività. Definisce il termine immersione paragonandolo alla sensazione psico-fisica di essere immersi nell’acqua. In tale situazione il coinvolgimento sensoriale è totale, ci si trova all’interno di una realtà altra rispetto al contesto ambientale abituale e tutti i sensi lo comunicano. Infine la tratta come un’esperienza coinvolgendo quindi la dimensione temporale e soggettiva, l’immersività non esiste in sé, ma soltanto in relazione al soggetto che la esperisce.
Questa definizione è in effetti molto ampia e in grado di contenere moltissime messe a terra differenti. Gli studiosi che si sono succeduti a Murray hanno approfondito il concetto, senza tuttavia arrivare ad una definizione ontologica del concetto di immersività. L’immersività di fatto non è una tecnica, non è legata ad alcun media e dunque non soggiace a precise regole che ne definiscono i limiti tecnici, estetici, narrativi.
Un affinamento particolarmente interessante della definizione di immersività, è determinato dall’introduzione del concetto di presenza:
La definizione dell’International Society of Telepresence pone l’immersività come la capacità di un ambiente virtuale (non inteso strettamente come virtual reality) di convincere l’utente che le sensazioni provenienti da tale ambiente siano quelle predominanti e che, dunque, il luogo che l’utente abita fisicamente sia quello virtuale. Ciò è possibile quando si attiva l’illusione percettiva di un ambiente non mediato, ovvero quando l’utente non percepisce che l’ambiente in cui si trova è realizzato artificialmente.
Una definizione molto pratica di cosa sia e di come si crei un’esperienza immersiva è contenuta in The Matrix. Quando Neo entra in “Struttura” appare confuso e domanda a Morpheus se tale situazione sia reale. Morpheus risponde:
Creare un’installazione immersiva significa dunque sfruttare i sensi del visitatore (utente o spettatore che sia) per farlo sentire all’interno di uno spazio altro. Farlo in maniera sapiente può portare a risultati percettivamente impressionanti, scatenare reazioni emotive ed imprimere l’esperienza nella memoria.
Giulia Lazzaretto
Creative Designer at DrawLight_MeYoung
Bibliografia
Franco Ghione, La prospettiva scientifica, in «Lebenswelt» 11, 2017, pp. 61-89
Institut Lumière, Le Photorama Lumière,
https://www.institut-lumiere.org/musee/les-freres-lumiere-et-leurs-inventions/photoramas.html
Gene Youngblood, Expanded Cinema, trad. it. (Expanded Cinema, Boston, E.P. Dutton, 1970), Bologna, Clueb, 2013
Janet Murray, Hamlet on the Holodeck, New York, The Free Press, 1997
International Society for Presence Research, The Concept of Presence: Explication Statement, 2008
http://ispr.info/
Filmografia
Abel Gance, regista, Napoleon, Francia, Consortium Westi (Ciné-France-Films), 1927
Lana e Lilly Wachowski, registi, The Matrix, Warner Bros, 1999
scena: https://youtu.be/VVro5wxqh4U