GLI ELEMENTI DELL’INSTALLAZIONE AUDIOVISIVA

Che cosa si intende quando si parla di “installazione audiovisiva”?
Definire l’ontologia di tale pratica non è impresa semplice.

Secondo Rosalind Krauss l’avvento del Sony Portapak nel 1964 e la conseguente diffusione del medium video in ambito artistico, ha provocato una separazione tra “media tecnici”, quei media adoperati secondo i loro protocolli di utilizzo, e “media espressivi”, quelli cioè che si basano sulla modifica di materiali, sostanze fisiche e azioni discorsive.
Questo determinò la fine della specificità mediale e l’impossibilità di categorizzazione dei prodotti dei nuovi media.
Nelle pratiche artistiche contemporanee, grazie anche all’avvento del digitale, la libertà espressiva, tecnica e tecnologica tracciata dal video negli anni ‘60/’70, si è ulteriormente espansa. Ciò favorisce la formazione di campi disciplinari mobili e una moltitudine di situazioni ibride. 

L’installazione audiovisiva è forse la situazione più complessa. Non dispone di un proprio dispositivo stabile e definito, ma lo crea di volta in volta. Non è un medium in sé, ma utilizza “medium” sempre differenti.

L’installazione è dunque una forma artistica priva di una chiara ontologia.
La sua definizione può basarsi su tre elementi chiave strettamente interconnessi: spazio, tempo ed esperienza.

 

Spazio

L’installazione è una pratica espositiva di diretta evoluzione rispetto a quella museale. La scelta e la disposizione di determinate opere in uno spazio espositivo tiene sempre conto delle relazioni che si instaurano tra di esse. Ogni opera collocata all’interno di una sala non è mai chiusa in un compartimento stagno, ma entra inevitabilmente in relazione con quelle che la circondano.
Nell’installazione è proprio la disposizione spaziale e la rete di relazioni che si creano tra i suoi elementi a generare l’opera.

La disposizione a semicerchio degli schermi nell’installazione Women Without Men di Shirin Neshat¹, crea uno spazio raccolto, intimo, al cui interno lo spettatore è invitato ad entrare e muoversi liberamente. Come rileva Miriam de Rosa lo spazio installativo ricrea simbolicamente l’ambiente del giardino, elemento simbolico di grande importanza all’interno del film.

La componente spaziale è da intendersi anche come site. L’ambiente stesso in cui è collocata l’opera ne diviene parte integrante attraverso un dialogo costante e continuo che può variare anche in base alle condizioni atmosferiche.
Le esposizioni artistiche sono ormai da tempo uscite dai musei invadendo palazzi storici, ville e castelli. Non sono ambienti nati e progettati per ospitare installazioni e se in origine si tendeva a ricreare uno spazio neutro, ora si concepisce la possibilità di lasicare visibile l’architettura dell’edificio mettendola in dialogo con l’opera.
Tale situazione è particolarmente rilevante nelle installazioni site specific costruite appositamente per relazionarsi ad un determinato luogo. Spazio espositivo e opera possono intessere tra loro reti relazionali particolarmente complesse e articolate che attivano continui processi di riconcettualizzazione reciproca.

La scelta di Shirin Neshat di installare la propria opera all’interno della Sala delle Cariatidi si fonda proprio sul significato storico e simbolico della location e dell’analogia che si crea con le tematiche espresse nell’opera.
Gli apparati decorativi della sala sono testimoni della propria storia mostrando i profondi segni provocati dai bombardamenti subiti dalla città di Milano nel 1943. Dieci anni dopo Pablo Picasso scelse la sala per esporre Guernica creando un parallelismo tra il contenuto della tela e la sala espositiva, entrambe legate agli orrori della seconda guerra mondiale.
Ciò che avviene nel 2011 con Women Without Men è analogo. Rivolte popolari e scontri armati fanno da sfondo all’opera dell’artista iraniana, ma più che questo tipo di battaglie, quelle che emergono con maggior forza sono le battaglie personali combattute dalle protagoniste. Battaglie anche violente che lasciano segni corporei o interiori, i quali trovano correlazione in quelli dei corpi delle cariatidi evidenziati dall’illuminazione. 

 

Tempo

Esistono installazioni audiovisive che mantengono una temporalità tradizionale implicando un inizio ed una fine, installazioni in cui l’ingresso è controllato e temporizzato, altre in cui la narrazione è un loop. Qualunque forma assuma, il tempo è intrinseco all’installazione audiovisiva.
Vale la pena soffermarsi qui sulle installazioni multicanale. Esse introducono una vera e propria rivoluzione: la spazializzazione del tempo.
Permettendo a situazioni diverse di coesistere nello stesso piano temporale tentano di avvicinarsi alla temporalità tipica dei processi percettivi di tipo psichico, onirico o memoriale.

L’installazione The House di Eija-Liisa Ahtila mira a comunicare uno stato mentale alterato, lontano dalla percezione comune della realtà spazio-temporale. L’artista fa combaciare la struttura dell’opera alla struttura mentale della protagonista così da far vivere allo spettatore l’esperienza quotidiana della donna, piuttosto che raccontargliela.
La sequenza iniziale pare fluire in maniera lineare, con il procedere dell’opera però l’ordine narrativo si fa sempre più caotico e confuso. Le azioni si susseguono senza una correlazione causale ed il senso di spaesamento coinvolge lo spettatore tanto quanto la protagonista.
Già presente nella versione cinematografica dell’opera, tale struttura è amplificata dalla spazializzazione. Inquadrature che nel film erano mostrate una di seguito all’altra nell’installazione sono proiettate contemporaneamente. La struttura narrativa è un network privo di qualsivoglia organizzazione gerarchica o ordine spazio-temporale, un ipertesto in cui ogni connessione è possibile.

 

Esperienza

Le relazioni spazio-temporali tra le opere di un’esposizione e tra gli elementi di un’installazione sono attivate dal terzo elemento fondamentale dell’installazione: lo spettatore.
È attraverso i suoi movimenti che l’installazione prende effettivamente forma assumendo una configurazione potenzialmente unica e diversa per ogni spettatore.

Diversi studiosi hanno tentato di catalogare le figure spettatoriali tipiche delle installazioni audiovisive.
Raymond Bellour teorizza lo “spettatore intermittente” riferendosi sia al moto dello sguardo che si sposta da uno schermo all’altro, sia al moto del corpo che alterna stasi e movimento.
Dominique Païni individua lo spettatore flâneur in colui il quale vaga senza scopo ricercando l’appagamento estetico e la perdita del sé.
Philippe Dubois parla di “camminatore-narratore”, focalizzandosi sull’azione fisica del visitatore. Tale azione, e il percorso che ne consegue, sono visti da Dubois come atti performativi che producono narrazione.

Tutte queste definizioni incontrano uno spettatore che costruisce l’opera in maniera individuale e soggettiva.
Un ulteriore livello di soggettività è determinato da memorie e conoscenze culturali proprie. Il background dello spettatore può espandere l’attività di “montaggio” ad immagini personali, ricordi e suggestioni, caricando l’opera di nuovi significati.

Come sottolinea Peter Wiebel lo spettatore, inoltre, si pone idealmente come interfaccia tra lo spazio eterotopo dell’installazione e lo spazio reale, permettendo all’uno di entrare in relazione con l’altro. 

Observer-controlled interactions between real and virtual worlds and between different parallel virtual worlds in computer or net-based installations enables the spectator to be the new author, the new cameraman or woman, the new cutter, the new narrator.

Riprendendo Women Without Men vediamo che nel film il giardino è uno spazio fisico e simbolico, inteso come luogo protetto dalle minacce del mondo esterno in cui le protagoniste trovano finalmente la possibilità di esprimersi liberamente per quello che sono. Nell’installazione, questo ambiente, ricreato dalla disposizione degli schermi, si apre all’altro, diventa uno spazio relazionale, mostrando così un’evoluzione, un passaggio ulteriore al percorso di crescita e rafforzamento interiore delle protagoniste.
Lo spettatore entra in questo giardino simbolico, entra nello spazio delle protagoniste, si muove sul limite tra realtà e rappresentazione divenendo il punto di congiunzione tra i due mondi. 

Giulia Lazzaretto
Creative Designer at DrawLight_MeYoung

 


¹  Nella versione esposta nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano nel 2011. L’installazione è preceduta dalla versione cinematografica dell’opera, vincitrice del Leone d’argento per la miglior regia al Festival del Cinema di Venezia nel 2009.

 

Bibliografia

Bellour R., La Querelle des dispositifs. Cinéma-installations, expositions, P.O.L Paris 2012

De Rosa M., “Women without Men: Shirin Neshat e la spazializzazione del femminile”, in Comunicazioni Sociali, (“Il teatro al femminile: declinazioni e incroci di due differenze”, a cura di L. Aimo), A. Frattali, Vita e Pensiero, Milano 2012, pp. 152-169 

Dubois Ph., “La questione della «forma-schermo» nelle installazioni”, in V. Valentini, C. G. Saba (a cura di), Medium senza medium. Amnesia e cannibalizzazione: il video dopo gli anni Novanta 

Dubois Ph., “Un ‘effet cinéma’ dans l’art contemporain”, in Cinema & Cie (“Cinema and contemporary visual arts”, a cura di Philippe Dubois), n. 8 (2006), pp.15-25 

Krauss R., L’arte nell’era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio (1999), tr. it. Barbara Carneglia, Postmedia, Milano 2005 

Païni D., Le temps exposé. Le cinéma de la salle au musée, Chaiers du Cinéma, Parigi 2002 

Peter Weibel, “Narrated theory: multiple projection and multiple narration (past and future)”, in Rieser M. e Zapp A. (a cura di), New screen media: cinema/art/narrative, cit., p. 53