Alla ricerca della realtà virtuale

Nascita della virtualità

 

“Nasce proprio allora la virtualità. Prima la geometria permetteva deformazioni pilotate tra il pre-demenziale e il fantastico (le anamorfosi) o una resa veristica del paesaggio (la prospettiva) ma anche l’illusione dello spessore della materia (il trompe l’oeil). Ma lo spazio, quello con cui dobbiamo fare i conti ogni momento per aprire e chiudere le porte, per accedere ai luoghi, per prendere in mano forchette e bicchieri, per salutare, per baciare, per non sbattere in ogni possibile ostacolo, quello era solo, sia pur realisticamente, rappresentato. Non virtuale. Eppure, visto retroattivamente, ci voleva poco a capire che, se abbiamo due occhi, bastava prolungarli artificialmente per replicare la terza dimensione nella quale siamo necessariamente immersi.”

Carlo Montanaro, 2015

Dunque iniziamo da qui, dal 1838.
In quell’anno Charles Wheatstone presenta alla Royal Society di Londra lo “Stereoscope”, uno strumento in grado di fondere otticamente due disegni leggermente diversi l’uno dall’altro, realizzati tenendo conto della distanza interpupillare (circa 6 cm).
Ben presto passò dal disegno alla fotografia, ma la sua invenzione non ebbe comunque grande successo a causa delle sue dimensioni e della complessità tecnica.
Fu attorno agli anni ‘50 dell’800 che, a partire dall’invenzione di David Brewster, iniziarono a moltiplicarsi modelli molto più semplici e maneggevoli di stereoscopio. L’accessibilità economica di tali strumenti ne definì il grande successo… tanto che molti di noi hanno posseduto almeno una versione moderna (il view-master), in plastica, di questi piccoli giocattoli ottici.

La virtualità introdotta dagli stereoscopi deve avere certamente ispirato Stanley G.Weinbaum, uno scrittore che concepì diverse innovazioni nell’ambito della fantascienza.È il 1935 quando Weinbaum scrive un racconto breve intitolato Pygmalion’s Spectacles nel quale descrive quella che oggi di fatto è un’esperienza di realtà virtuale.
Leggerlo ai giorni nostri è sorprendente.
Il protagonista della storia si domanda per tutto il tempo se ciò che sta vivendo sia reale o si tratti di un’illusione. Il dispositivo che indossa non coinvolge soltanto la visione, ma anche il movimento, l’olfatto, il gusto ed, in un certo senso, anche il tatto. Il Professor Ludwig, lo scienziato inventore di questo visore sensoriale, spiega che: 

“ […] sensation are mental phenomena. They exist in our mind.”

e, poco più avanti, quando gli viene chiesto come fa a stimolare il tatto egli risponde: 

“If your interest is taken, your mind supplies that.”

Pensiamo al cinema, o al teatro, quanto riescono ad illudere i nostri sensi, e il nostro senso di presenza? Parafrasando il Professor Ludwig, se la storia ti cattura, la tua mente ti porta dentro alla realtà in essa rappresentata.
La prima volta che il termine “realtà virtuale” fa la sua comparsa è proprio in riferimento all’illusione teatrale. A coniare il termine è il drammaturgo francese Antonin Artaud, nel 1938.
Se ad una prima analisi l’espressione “realtà virtuale” pare un ossimoro, ad una più attenta riflessione si scopre che non lo è affatto. Il contrario di virtuale non è reale, ma attuale (inteso come concreto, effettivo). La realtà virtuale dunque non si definisce come qualcosa di irreale, non si contrappone alla realtà bensì ne è parte.

Vicenza, teatro olimpico

 

L’innovazione tecnologica

La prima tecnologia che tende ad avvicinarsi al dispositivo immaginato da Weinbaum (forse quella che ci si avvicina di più fino ad ora) è il sensorama.
Inventato da Morton Heilig nel 1957, il sensorama è un macchinario di grandi dimensioni che permette la visione di immagini stereoscopiche in movimento, la percezione di suoni e musiche in stereoscopia, sensazioni tattili come vibrazioni, vento, movimento, ed infine anche la percezione di profumi.
Purtroppo gli elevati costi di produzione e la fruizione singola dell’esperienza non rendevano il macchinario appetibile per gli acquirenti, pertanto Heiling fu costretto ad abbandonare il progetto.

Nel 1969 Ivan Sutherland inventò quello che può essere definito il primo visore di VR.
Il visore si componeva di due tubi catodici che proiettavano ambienti 3D in wireframe e semplici elementi geometrici in movimento. Pur trattandosi di un visore il peso era notevole e doveva essere agganciato con una staffa al soffitto, da questa caratteristica prese il nome di Spada di Damocle.

Da allora dovettero passare almeno 20 anni prima che si iniziassero ad ottenere altri progressi soddisfacenti. Negli anni ‘90 la NASA cominciò a finanziare studi legati alle tecnologie di Virtual Reality, fino a sviluppare un proprio visore: il Virtual Interface Environment Workstation (VIEW). Utilizzato principalmente per l’addestramento dei piloti, questo visore permetteva di visualizzare sia ambienti reali che virtuali, rendendolo sia un visore AR che VR.
Il VIEW della NASA permetteva anche l’interazione con gli oggetti virtuali tramite i DataGlove, dei guanti cosparsi di sensori ottici e magnetici in grado di misurare la flessione delle dita e il movimento della mano nello spazio, e la DataSuit, un indumento completo in grado di trasmettere al computer i movimenti corporei dell’utente.

Nel corso degli anni ‘90 si moltiplicano le sperimentazioni sui visori VR in particolare nel campo videoludico, ma la tecnologia fatica a decollare e la ricerca si spegne di nuovo.
Nel 2013 anche grazie ad una fortunatissima campagna su Kickstarter, viene sviluppato Oculus Rift. Sony, Google e HTC s’impegnano per stare al passo e sviluppare i loro visori. Da allora i modelli sono stati aggiornati più volte.
Il momento della VR pare finalmente arrivato.
Anche DataGlove e DataSuit hanno avuto il loro seguito. L’ultima novità è Telasuit: una tuta aptica che consente il rilevamento del movimento e di alcuni dati biometrici, ma anche la trasmissione di feedback tattili al corpo di chi la indossa.
Sperimentazioni sono attive anche negli ambiti di gusto e olfatto.
Chissà se, 100 anni dopo, la visione di Weinbaum non stia divenendo reale!

 

L’esperienza

Nell’ambito della VR, l’esempio più forte per immersività e coinvolgimento emotivo è Carne y Arena di Iñarritu e Lubezki.
Il corto in VR, vincitore di un premio Oscar, è supportato da un percorso e da elementi fisici di grande impatto sensoriale, simbolico ed emotivo.
Prima ancora di entrare all’interno del percorso ci si trova di fronte ad un pezzo della reale recinzione di confine tra Stati Uniti e Messico. Una volta dentro vengono tolti cappotto ed oggetti elettronici e a questo punto si accede alla prima sala. 

Qui ci sono solo una panca di acciaio, fredda, e un mucchio di scarpe. Una voce ti dà istruzioni di togliere le scarpe e attendere il suono della sirena. L’attesa all’interno di questa stanza spoglia, fredda, a piedi nudi, con le tue scarpe che diventano parte di quel mucchio di scarpe consunte che giacciono lì, abbandonate, attiva già una certa risposta emotiva.

Suona la sirena, la porta si apre ed accedi ad uno spazio molto grande e buio, illuminato solo da una striscia di luce calda. Il terreno è ricoperto da sabbia, i tuoi piedi la avvertono.
Un addetto ti fa indossare il visore e ti da tre semplici istruzioni: non toccare il visore, se ti senti toccare significa che sei arrivato al limite dell’area e devi cambiare direzione, ma soprattutto… non correre.
L’esperienza ha inizio. Ti trovi nel mezzo di un deserto, un gruppo di migranti compare, ti unisci al loro cammino. Se provi ad interagire con loro questi non rispondono, sei un fantasma. Improvvisamente in cielo senti e vedi volare a bassa quota un elicottero, a terra sopraggiunge un grande SUV dal quale escono militari armati che puntano i fucili sul gruppo di migranti… e su di te con loro. Vi urlano contro, sempre più forte. I tuoi compagni si inginocchiano terrorizzati, lo vedi il terrore nei loro corpi, così vicini al tuo.
La carica emotiva a questo punto è così alta che anche tu ti inginocchi, spaventato.
In 6’30’’ Iñarritu ti ha fatto provare cosa significa trovarsi dalla parte sbagliata del confine:

“My intention was to experiment with VR technology to explore the human condition in an attempt to break the dictatorship of the frame—within which things are just observed—and claim the space to allow the visitor to go through a direct experience walking in the immigrants’ feet, under their skin, and into their hearts.”

Fuori dalla sala della VR, lungo un corridoio nero, sono esposti i ritratti fotografici dei tuoi compagni di viaggio, accompagnati da una breve descrizione delle loro storie.

Il lavoro tecnico e registico che sta dietro a quest’installazione è mostruoso, ma la sua vera forza sta nella costruzione del racconto, nello storytelling dell’esperienza dello spett-attore, nell’unione di reale e virtuale. La grandiosità tecnica non si risolve in un lezioso esercizio di stile, ma è lo strumento ben calibrato per veicolare la narrazione.

Trailer Carne y Arena

Giulia Lazzaretto
Creative Designer at DrawLight_MeYoung

 

Bibliografia

Carlo Montanaro, Visori stereoscopici, in calendario 2016 – supplemento ai numeri 5-6 di “All’Archimede”, Associazione Culturale Archivio Carlo Montanaro, 2015

Stanley G. Weinbaum, Pygmalion’s Spectacles, 1935
https://www.classicly.com/bibi/pre.html?book=1407.epub

Pierrick LABBE, L’origine peu connue et particulièrement surprenante du terme réalité virtuelle, Febbraio 2018
https://www.realite-virtuelle.com/terme-realite-virtuelle-origine-oxymore/

Lorenzo Vizzari, Il sensorama: la nascita della realtà virtuale, Aprile 2022, VR-Italia
https://www.vr-italia.org/il-sensorama-realta-virtuale/

Autore sconosciuto, The Virtual Interface Environment Workstation (VIEW), 1990, NASA
https://www.nasa.gov/ames/spinoff/new_continent_of_ideas/

Telasuit website
https://teslasuit.io/

Carne Y Arena website
https://phi.ca/en/carne-y-arena/

Benjamin B, Carne y Arena part 1 – VR by Alejandro G. Iñárritu with Emmanuel Lubezki, ASC, AMC, 2017, American Cinematographer
https://ascmag.com/blog/the-film-book/carne-y-arena-vr-masterpiece-innaritu-lubezki